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Imparare a ridurre la complessità utilizzando la rappresentazione a grafo

Le informazioni che ci circondano sono troppe e afferrarle ci richiede energie e sforzi, che ci distolgono da ciò che è veramente essenziale. In primo luogo, quindi, è bene ridurre la complessità, utilizzando una rappresentazione matematica, quella dei grafi, e avvalendosi del parallelismo con il modo di funzionare e di correlare della mente umana. Oltre a semplificare la nostra visione del mondo, è possibile creare nuove aggregazioni fra i dati e le potenzialità che ci circondano. Un percorso di esplorazione, comprensione e rappresentazione, utile a semplificarci la vita, costruendo il nostro grafo personalizzato.

Uno sguardo sul mio Metodo dell’Essenzialità.

 

Ecco un estratto:

Credo sia ormai un cliché consolidato quello dell’omino schiacciato dalla mole di dati, potenzialità e opportunità che il nostro attuale mondo propina. A volte l’omino è rappresentato con un troneggiante e gigantesco punto interrogativo; a volte immerso in migliaia di numeri e formule incomprensibili; a volte in fuga; a volte estasiato di fronte allo spettacolo del caos, ma bloccato dal non sapere cosa farsene. Si tratta di vignette simpatiche quanto inquietanti e soprattutto rispecchianti con ironia una realtà che tutti abbiamo toccato con mano. È una sensazione molto comune, a livello sia personale sia organizzativo.

Rassicurarci di non essere soli è un piccolo sollievo, ma non aiuta concretamente. Sentiamo il bisogno di tornare all’essenziale. Ma che cosa significa veramente? Possiamo permetterci di perdere ciò che di prezioso ci offre questo mondo, in virtù del fatto che ci fa sentire smarriti e disorientati?

Abbiamo compreso che la vastità delle informazioni e delle potenzialità non è stata portatrice di benessere né di crescita, almeno non nella misura in cui ci era stata fatta presagire. Il mondo non è diventato un paradiso di opportunità. Non conta il volume degli stimoli, infatti, ma conta avere del materiale su cui lavorare e su cui concentrarci, per il nostro futuro.

Di stimoli siamo davvero pieni: internet e i media in generale ci bombardano di immagini, video, parole, suoni e contenuti multimediali, le persone intorno a noi sono esse stesse fonte di sollecitazioni. L’evoluzione non ci ha modellati per gestire tutto questo. Dall’altra parte, però, le opportunità di conoscenza e realizzazione sono elevate e intuiamo che non dovremmo perderci la possibilità di sfruttarle.

Quando il dilemma è posto in questi termini ci appare di difficile soluzione. In realtà io credo, invece, che una soluzione ci sia e che, tutto sommato, non si tratti di un dilemma, ma di una prospettiva distonica: la teoria dei grafi può venire in aiuto.

Descrivere il nostro mondo con la rappresentazione a grafo

La rappresentazione a grafo non è certo recente. Fu applicata per la prima volta nel 1736 a opera di Eulero. Oggi è ampiamente riscoperta per via dei social network e, in generale, delle reti di dati. La semplicità e la potenzialità di tale sistema di rappresentazione sono allettanti, soprattutto se ci soffermiamo sulla base teorica, senza ambire ad applicarvi le formule matematiche di calcolo, almeno non in prima battuta. La teoria dei grafi è una teoria matematica da cui si può estrarre con relativa facilità un utile approccio.

Il nostro cervello è molto complesso, ma anche molto semplice nel suo funzionamento concettuale: i neuroni sono assimilabili ai nodi, ovvero gli elementi che costituiscono il grafo, mentre le sinapsi svolgono la funzione degli archi, le linee di collegamento fra i nodi. I ricordi, le idee, le percezioni, le interpretazioni, le emozioni, i pensieri, sono tutti pattern, cioè quadri e percorsi di aggregazione tra neuroni.

(…)

Ridurre la complessità

Occorre comprendere ciò che è importante per noi, rilevante, realmente significativo: in una parola, ciò che è essenziale. È questo il concetto su cui è modellato il Metodo dell’Essenzialità. Se riusciamo a distinguere ciò che è essenziale, al di là delle fonti da cui le caratteristiche derivano e al di là delle forme e delle strutture con cui giungono a noi, possiamo ridurre la complessità del mondo, senza perdere alcunché, semplicemente trasformando quelle caratteristiche varie e sparse in proprietà delle essenzialità. Nel linguaggio della teoria dei grafi, dobbiamo trovare le nostre entità, vederne le relazioni e convogliare le proprietà sui nodi e sugli archi. Come possiamo riuscirci?

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Autore: Paolo Speranza

Pubblicato sul numero 123 Agosto-Settembre 2017 di “Persone & Conoscenze”, Este ed.

Trovi il sommario del numero a questo link: 

https://www.este.it/images/riviste/Sommari/Sommari_PeC/P&C_123_Sommario.pdf

Per leggere l’articolo completo acquista la versione .pdf scrivendo a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434419), oppure acquista la copia singola numero Persone & Conoscenze n.123 Agosto-Settembre 2017 su https://www.este.it/abbonamenti/copia-singola-numero-arretrato-persone-conoscenze-2.html.

Non dobbiamo temere il cambiamento, è la strada per lo sviluppo organizzativo

Il cambiamento fa parte della nostra esistenza: è parte di noi e per questo non dobbiamo temerlo. Affrontiamolo con le nostre caratteristiche, modalità e potenzialità, calandolo nel nostro contesto. La resistenza al cambiamento è un ottimo antidoto per non farsi distrarre dal caos: rispettiamolo senza farci ostacolare. Lasciamoci ispirare da modelli e schemi, ma ricordiamoci che è il nostro piano di sviluppo a guidarci al meglio.

 

Ecco un estratto:

“L’azienda deve adeguarsi alle richieste del mercato”; “Bisogna adattare la nostra organizzazione al business”; “I nostri prodotti non sono più in linea con le richieste dei clienti”; “Dobbiamo essere più produttivi e impegnarci di più”; “Dobbiamo andare d’accordo e lavorare bene insieme”; “Bisogna modificare il modo di lavorare del gruppo”. Ognuno di noi potrebbe scrivere centinaia di queste frasi. Vere, verissime, ineccepibili. Tutte rivolte al cambiamento, non c’è dubbio, anche se non esplicitamente. Tutte parlano di uno sviluppo, a titolo personale e organizzativo.

Bruno Bara nel 2009 ha scritto: “Si può capire tutto, ma cambiare nulla”. Usando una metafora olimpica possiamo disporci sulla linea di partenza al grido agognato di “adesso si cambia”, convinti –a livello superficiale– di poter scattare e correre verso una meta idealizzata nel momento in cui lo starter darà il via. Eppure molto raramente questo accade, almeno con le modalità che riteniamo di dover attenderci.

Perché tutto ciò? Siamo delle persone deboli e incapaci? Le nostre organizzazioni sono mal strutturate? I collaboratori sono maligni e inconcludenti? Oppure tutto avviene al di fuori di noi e non ne abbiamo colpa, né abbiamo potere di intervenire? Facciamo un passo indietro. Ognuno di noi è prezioso e unico nel suo modo di essere. E questo vale per la persona come per l’organizzazione. Il valore e l’unicità di ognuno di noi non dipende da quanto riusciamo a realizzare e a esprimere, ma dalla nostra essenza. L’essenza, in effetti, è l’unica cosa che non cambia. Tutto il resto sì: la nostra biologia, il contesto in cui viviamo, le persone che incontriamo, ciò che facciamo e il modo in cui lo facciamo. Il cambiamento è una componente fondamentale e imprescindibile della nostra esistenza.

Abbiamo però bisogno di schemi e modelli per muoverci, altrimenti ci sentiremmo dispersi nel caos. Evolutivamente per questo abbiamo sviluppato la resistenza al cambiamento, un ottimo antidoto per continuare a operare secondo percorsi risultati efficaci, senza farsi distrarre dalle migliaia di stimoli che giungono ogni giorno alla nostra mente.

(…)

 

Autore: Paolo Speranza

Pubblicato sul numero 114 Agosto 2016 di “Persone & Conoscenze”, Este ed.

Trovi il sommario del numero a questo link: https://www.este.it/images/riviste/Sommari/Sommari_PeC/P&C_114_Sommario.pdf

Per leggere l’articolo completo acquista la versione .pdf scrivendo a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434419), oppure acquista la copia singola numero arretrato Persone & Conoscenze n.114 Agosto 2016 su https://www.este.it/abbonamenti/copia-singola-numero-arretrato-persone-conoscenze-2.html.

A chi serve parlare di team building (2)?

Alle prime battute di una due-giorni di Team Building uno degli esercizi-gioco consiste nell’assumere la prospettiva altrui, in pratica nel mettersi dei panni dell’altro, che non sappiamo fisicamente chi sia tra i partecipanti. E’ un esercizio apparentemente semplice, in realtà per nulla, ed efficace per aprire la nostra mente alla consapevolezza. Ciò che emerge a volte è sorprendente.

Durante una recente due-giorni di corso, condividemmo l’esercizio-gioco al termine del quale, oltre ad un po’ di divertimento, calò un certo silenzio.

Su invito ad esprimersi, un membro del gruppo, Marta, disse di essere rimasta turbata dal fatto di scoprire gli altri avere problemi simili ai suoi, sebbene con sfumature e soggettività ovviamente diverse. Proprio questa similitudine le aveva facilitato il compito di assumere la prospettiva di una sconosciuta o uno sconosciuto.

“E’ vero che siamo diversi, ma non lo siamo poi così tanto. Tendiamo sempre a difenderci, pensando che gli altri siano migliori o non abbiano le nostre difficoltà, oppure tendiamo a pensare che gli altri siano più freddi e tutto per loro sia più facile che per noi. Beh, ho capito che non è così”.

Giovanni, un altro membro del gruppo, disse: “Sì, è vero. Tutto sommato, siamo in grado di assumere la prospettiva degli altri. Non è impossibile”.

Altre voci si unirono al piccolo coro: “Capire che noi siamo gli altri per gli altri è banale, forse, ma illuminante”. “Sì, qualsiasi gruppo di persone, di qualsiasi natura sia il gruppo, dovrebbe pensarci e tenerne conto”.

Marta riprese la sua riflessione: “E’ sconvolgente per me scoprire che gli altri mi vedono in modo diverso da come io penso di essere vista, di riconoscermi tratti e attitudini che io non attribuisco a me stessa. Cavoli, mi rendo conto di quanto allora possa essere inefficace la comunicazione tra noi. Gli altri parlano ad una persona che io non mi riconosco essere…Dai, questa cosa è sconvolgente!”

Le rispose Giovanni: “Credo che tutti noi qui fossimo convinti che tu sapessi come noi ti vediamo”

Un altro membro del gruppo, Marco: “Beh, adesso lo sappiamo, sarà sicuramente più facile capirsi”.

Si era aperta una breccia davvero importante. Il percorso per ognuno di noi si delineava davvero interessante, nelle poche giornate insieme, ma soprattutto nelle tante giornate personali della nostra vita.

A chi serve, quindi, parlare di Team Building? Nessuno meglio di ognuno di noi può rispondere a questa domanda.

Chi ha bisogno di cosa?

Era il 1954 quando Abraham Maslow concepì il concetto di Gerarchia dei Bisogni. Questo psicologo statunitense, scomparso nel 1970, è uno dei più citati psicologici della storia, proprio a causa di questa sua teoria che ha avuto così tanta eco.

Maslow, nel suo volume Motivazione e personalità,  teorizzò che esiste una scala dei bisogni degli esseri umani. Ogni gradino di questa scala è propedeutico al successivo e non è possibile raggiungere un livello superiore senza aver prima soddisfatto i bisogni del livello più basso.

Si tratta di una teoria che ha ormai oltre 60 anni e che è stata rivisitata in molti modi, sviluppata secondo diverse chiavi di lettura, modernizzata da diversi autorevoli studiosi. Però, nella sua “semplicità” ed essenza, ci fa capire moltissimo del nostro mondo. Ed è innovativa, anche nella sua vetustà apparente.

Sentiamo spesso dire, ad esempio, che “si era più felici quando si stava peggio”. Al netto dei risvolti nostalgici e delle peculiarità della nostra memoria, con i suoi meccanismi di disattenzione selettiva, io credo che la scala di Maslow risponda brillantemente a questa affermazione.

Quando i nostri bisogni sono quelli della sopravvivenza o della sicurezza (i primi due gradini della scala), la loro soddisfazione ci fa sentire felici. In quella condizione ci sembra impossibile, per una persona che non debba preoccuparsi più delle esigenze fondamentali, non sentire benessere. D’altro canto, soddisfatti quei bisogni, ne sorgono altri, di livello secondario, come una continua spinta a realizzarci pienamente, ad accettarci così come siamo, ad essere capaci di vivere esperienze profonde e rapporti umani positivi, a sentire di essere diventati ciò che siamo in grado di diventare.

E’ comprensibile che ci sentiamo appagati quando riusciamo a soddisfare le nostre esigenze del momento e riusciamo ad intravedere quel gradino successivo che potrebbe attenderci. Ed è quindi inutile rammaricarci ed inveire verso chi “ha di più di noi” e non è felice lo stesso.

Quale significato può avere, dunque, parlare di successo e autostima (che fanno parte del quarto gradino della scala) a chi non ha nemmeno una casa (secondo gradino) o a chi non ha sempre da mangiare (primo gradino)? Non c’è da stupirsi se in questi casi non ci si capisce affatto. E non c’è da stupirsi nemmeno quando la proposta di un modello sociale, visto da un gradino troppo alto, ad un’altra realtà sociale che lotta per bisogni di livello diverso, possa portare a conflitti più o meno importanti. Un esempio? L’esportazione del nostro modello culturale, fatto di edonismo ed eudemonismo, tecnologie avanzate, carriere lavorative, politica, verso società che lottano tuttora contro la fame e le malattie. Pensiamo davvero che possa essere efficace e funzionale? Pensiamo davvero che siano gli “altri” ad essere ingrati nei nostri confronti?

Per ognuno di noi, mi sento di proporre una piccola cosa: quando guardiamo agli altri, siamo consapevoli di essere diversi, anche se non sappiamo quanto e come, di avere bisogni diversi e sicuramente percezioni diverse.

Si tratta solo di un piccolo passo, eppure la sua portata è inimmaginabile. Cosa ne pensate?

Comprendere la frustrazione

Le situazioni che percepiamo, o meglio valutiamo, come negative sono sempre e solo da combattere, ignorare, evitare? O c’è dell’altro, magari prezioso per noi?

Ad esempio, tutti consideriamo come un grosso problema il momento in cui ci sentiamo frustrati. Si tratta di un’emozione dalle forti risonanze di difficile gestione. Ma perché ci sentiamo frustrati? Che cos’è la frustrazione?

Proviamo ad avere un approccio osservativo, senza paura.  Il perchè è importante almeno quanto il come e il quando. Dobbiamo soltanto liberarcene? Possiamo gestirla? Possiamo addirittura esplorarla ed accoglierla, come una lettera da aprire?

La frustrazione è la delusione per il mancato appagamento di un’aspettativa. E’ il sentimento di chi ritiene che il proprio agire sia stato o sia vano.

Vi siete mai sentiti in ansia in situazioni organizzative in cui in apparenza non vi sono elementi stressogeni né cause scatenanti? L’ansia ci sta avvisando che siamo vulnerabili alla frustrazione. Perché? Non è detto che lo scopriamo con facilità, nè tantomeno che siamo disposti a vedere ed accettare di vedere ciò che non quadra. Questa è una potenziale trappola che dovrebbe farci suonare un campanello di allarme.

Invece di gettare via la lettera, proviamo ad aprirla? Siamo disposti a guardarci dentro, a soffermarci sulla negatività? Non spaventiamoci, probabilmente non è così oscura e terrificante come temiamo. E sicuramente qualcosa da dirci ce l’ha.

C’è un corso specifico nel mio Catalogo Personale che affronta tale argomento, l’uso potenziale delle situazioni negative. Scrivimi se può interessarti.

A chi serve parlare di team building (1)?

Durante un corso di team building, un partecipante, all’apertura della giornata formativa, disse: “Io sono qui perché mi hanno detto di venirci, ma questo corso andrebbe seguito dai nostri manager, non da noi, e da me in particolare”.

Il formatore sorrise e non rispose subito. Osservò il gruppo di persone che erano riunite in quella stanza. Poi disse: “Oggi noi siamo un gruppo e siamo tutti uguali qui, in questo momento, al di là dello status, del ruolo e delle mansioni che ricopriamo nell’organizzazione”.

Poi proiettò una citazione.

“La teoria generale dei sistemi ci spiega che qualsiasi cambiamento in un oggetto del sistema è interdipendente ad ogni parte del sistema stesso. Ogni parte, per quanto piccola, ha il potere di influire sul comportamento dell’insieme” (Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni)

Il partecipante non intervenne. Forse era vero, che non avrebbe voluto essere lì, ma la sua presa di posizione era soltanto la punta dell’iceberg, al di sotto si muoveva un mondo di interessi, valori e bisogni, che avevano plasmato la superficie.

C’è qualcosa di affascinante ed importante per il nostro futuro nell’indagare e comprendere quella parte meno visibile del nostro comportamento. E qualsiasi spunto di riflessione vogliamo far emergere dentro di noi e dentro il nostro gruppo di appartenenza, che sia la rete di comunicazione, la diversità, la coesione, la motivazione, la cultura di gruppo, sappiamo che sarà in grado di innovare, anche fosse solo un piccolo passo, anche fosse solo un lumicino nel buio. E l’effetto non è mai insignificante.

C’è un corso specifico nel mio Catalogo Personale che affronta tale argomento. Scrivimi se può interessarti.

Il conflitto, comprenderlo per gestirlo ed innovarsi

C’erano una volta numerose pellicole di fantascienza che ci dilettavano con l’immagine di un futuro in cui i conflitti (e le ingiustizie) non esistono più e la pace regna sovrana, in virtù dell’uso esclusivo della razionalità, a scapito dell’emotività. Salvo poi assistere sistematicamente al tracollo dello stesso sistema per via della “disumanità” insita nel meccanismo governativo e degli effetti dell’assenza di conflitto.

Eh sì, perchè l’assenza di conflitto è deleteria e distruttiva tanto quanto lo è l’elevata conflittualità, in modo speculare.  Strano a dirsi e quasi pericoloso affermarlo, in quanto tutti siamo propensi a vedere nel conflitto la negatività sublime, da interrompere a tutti i costi. Eppure diversi studiosi hanno dimostrato il contrario di quello che si pensa. Sto parlando evidentemente di conflitti privi di aggressione fisica e psicologica, in generale privi di minacce per l’incolumità delle parti.

Il grafico sotto è ormai sufficientemente noto (vedi Comportamento organizzativo). Mostra chiaramente la dinamica di questa tesi controintuitiva.

Le migliori prestazioni di un gruppo di lavoro si ottengono in caso di moderata conflittualità, possibile generatrice tra l’altro di innovazione, e non nei due estremi.

E’ chiaro che questo ci fa capire, o almeno intuire, il potenziale costruttivo e non solo distruttivo del conflitto.

Certo, esiste un mondo da esplorare al di sotto della superficie. Le prese di posizione in caso di conflitto, infatti, non sono che la punta dell’iceberg, come spiega la teoria di John Burton. Sono frutto di interessi personali, che rappresentano il conflitto reale e non soltanto quello apparente. Questi sono dettati da valori umani e sociali, a loro volta fondati sui bisogni umani fondamentali (un po’ datata, ma sempre valida, è la piramide dei bisogni di Maslow). Insomma, le forze in gioco in caso di conflitto sono molteplici, l’importante in prima battuta è non soffermarsi esclusivamente sull’apparenza, essere consapevoli delle radici della diversità.

Anche in questo caso, e soprattutto in questo caso, cerchiamo di essere innovativi e di essere capaci di guardare al di là del mero comportamento manifesto.

C’è un corso specifico nel mio Catalogo Personale che affronta tale argomento. Scrivimi se può interessarti.

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